La superficie per Pope non è astrazione mentale, è membrana che permette l’osmosi tra lo spazio dell’Essere e quello, mobile e palpitante, dell’Esistere. Presenza esistenziale, la superficie non si dà nell’istante, è sequenza di istanti, presuppone una durata, una storia. Le tele di Pope, in effetti, sono il risultato di lente sedimentazioni di colore deposto strato su strato, tocco su tocco: emergenze grumose, spianate affondanti, come in certi fenomeni geologici, sono l’orma che il tempo lascia stampata nello spazio.
A scandire la profondità del tempo, non meno che la stratificazione materica del colore, interviene, in Pope, la gamma stessa dei colori. La coltre nera, opaca che, per larga parte, copre le ultime tele di Pope giace in realtà sopra strati di altro colore: stesure di rosso, di verde, di azzurro emergono qua e là, ora occhieggiando attraverso lacune aperte fra il nero, ora debordando oltre i lembi delle campiture sovrastanti. Come in una sorta di sublimazione alchemica alla rovescia, la nigredo qui non è inizio dell’opus, ne segna il culmine, in sé accogliendo tutte le possibili trasmutazioni della materia nel suo risalire alla luce; una discesa ad inferos che non preclude la risalita, anzi la attualizza: il nero, come il bianco che ancora campeggia, è, alla fine, sintesi di tutti i colori, li porta sotto, dentro di sé.
Bianco, nero, sono espressioni diverse di un’identica condizione, termini di una suprema e raggiunta coniunctio oppositorum.
Le immagini di Pope, come i segni di Sonego, non sfondano, non alludono, affiorano “in limine”; risolvono tutto l’al-di-Ià, tutto l’al-di-qua, nella loro dilagata e galleggiante estensione. Nell’emergere in superficie, le sagome geometriche perdono fatalmente l’asettica ed imperturbabile levigatezza dell’eden euclideo da cui certamente provengono.
Non a caso Pope sempre evade dalla prigione sbarrata del sistema orizzontale-verticale: attraverso ripetute inclinazioni l’impaginazione compositiva puntualmente trasgredisce all’ortogonalità guntemberghiana, o meglio, la riconduce alla ritmica, rettilinea ma dinamica, della diagonale. Anche l’ultimo baluardo dell’ortogonalità pura, la cornice, viene contestata da decisi e ribaditi “fuori quadro”: rettangoli, quadrati monchi ed emarginati che rimandano ad un’estensione tutt’altro che limitata e quadrata dello spazio.
All’instabilità del congegno compositivo si accorda la microdinamica della linea-confine serpeggiante tra le campiture cromatiche, cesura netta, ma instancabilmente irrequieta, quasi sforbiciata, mai disposta comunque a farsi stirare, “rettificare”. Il reciproco marginarsi, franto e vibrato, delle aree cromatiche non è, infine, che la traduzione in chiave visiva di quell’irregolarità che, in forma tangibile, percorre tutta la superficie, anch’essa scabrosa, accidentata, fitta di tutte le sporgenze e gli avvallamenti di un colore alto e pastoso. Lo stesso brivido che fa trasalire le forme nel loro incontrarsi “nel” quadro, ora si espande “sul” quadro, lo increspa, come pelle appena irritata, nel suo affacciarsi alla vita.